Dopo la tappa a Cuba, riparte il viaggio alla scoperta delle birre del mondo e lo fa con una tappa in uno dei Paesi più interessanti del panorama brassicolo europeo e non solo.
La Danimarca infatti, pur non potendo far registrare i numeri di vicini di casa quali il Belgio e soprattutto la Germania, con una popolazione di soli 5 milioni di abitanti presenta un numero davvero molto alto di birrifici e prodotti brassicoli.
Un confronto con i dati relativi all’Italia rende bene l’idea di come la bevanda più antica inventata dall’uomo sia parte integrante della cultura del Paese scandinavo. Sulla nostra penisola, abitata da circa 60 milioni di persone, sono presenti circa 1000 birrifici, che impiegano direttamente circa 6000 persone, e in tutto producono circa 17 milioni di ettolitri annui. In Danimarca invece, dove come visto risiede meno di un decimo della popolazione italiana, troviamo più di 200 birrifici dove lavorano quasi 5mila persone e che, ogni 360 giorni, fermentano 6 milioni di hl di birra.
Un altro dato che rende bene l’idea, viene riportato dal World Beer Index 2021 nel quale viene riportato il prezzo medio di una bottiglia da 33cl nei due Paesi: da noi si aggira sui 5,8 euro, mentre sulle sponde del mar Baltico è di 5,2. Dato che in Danimarca il costo della vita è ben maggiore rispetto a quello dell’Italia , questo chiarisce ulteriormente quanto sia elevata sia la disponibilità che la richiesta di prodotti brassicoli a Copenaghen e dintorni.
Questo è il risultato di una cultura brassicola che vanta più di un millennio di storia avendo iniziato a svilupparsi all’epoca dei Vichinghi (793-1066 d.c.), una delle popolazioni più celebri dell’antichità che con le sue esplorazioni scoprì le Americhe cinque secoli prima di Cristoforo Colombo. Gli antenati degli attuali danesi erano infatti soliti produrre e consumare birra ritenendola più salubre dell’acqua, ma non solo: era ritenuta una bevanda sacra soprattutto per i guerrieri che ritenevano infondesse energia vitale grazie alla fermentazione intesa come purificazione.
La centralità della birra nella quotidianità di quella popolazione, che non è mai andata perduta, ha prodotto, in epoca moderna, un risultato molto importante che non tutti conoscono, ma che è alla base della qualità delle odierne birre a bassa fermentazione. Si tratta del contributo dato alla ricerca sulla lievitazione della birra: a fine’800 infatti il micologo Emil Christian Hansen del neonato birrificio Carlsberg, identificò il lievito Saccharomyces Carlsbergensis, oggi il più utilizzato per le ottime qualità organolettiche, nella preparazione di questa tipologia di birra.
Dando uno sguardo allo sviluppo del settore brassicolo danese nell’ultimo secolo, si nota come, fino alla fine degli anni ‘90, sia il mercato interno che quello relativo alle esportazioni, fosse esclusivo appannaggio di celebri marchi quali, oltre al già citato Carlsberg, Tuborg e Ceres: a questi si univano altri prodotti reperibili anche in Italia come Fake e Bjorne, quest’ultima conosciuta come ‘la birra dell’orso’ per la rappresentazione sull’etichetta del grande mammifero tipico di quelle terre.
Questo era dovuto alla pressoché totale assenza di birrifici artigianali locali. Il cambiamento, o ‘beer craft revolution’ di cui abbiamo già avuto modo di parlare in diverse occasioni, è iniziato nel 1998 anno di fondazione del “Danske Ølentusiaster”, un’associazione che opera per la diffusione e la consapevolezza della birra danese di qualità.
Questo ente si è fatto inoltre promotore di numerose iniziative atte ad ampliare le conoscenze dei consumatori danesi relative agli innumerevoli stili brassicoli realizzati nei vari Paesi europei: tale è il motivo per cui questi hanno iniziato ad incuriosirsi e a richiedere una diversificazione dell’offerta brassicola fino ad allora pressoché limitata a lager e qualche doppio malto.
Diretta conseguenza di questo, in una terra dove la bevanda è amata da sempre, non mancano le risorse finanziare e vi sono numerosi piccoli imprenditori, è stata un’autentica esplosione del numero di birrifici: nel 2002 erano 21, 120 sei anni dopo e ben 212.
Se non bastasse questo dato a dare l’idea della portata del fenomeno, l’entità della ’craft beer revolution’ danese emerge da un altri numeri citati da diverse fonti: nel 2008 sono stati lanciati sul mercato interno più di 600 nuovi tipi di birra, nel 2017 addirittura oltre 1600.
Il movimento artigianale danese ha dato quindi vita ad una varietà unica di prodotti alcuni dei quali, di cui magari riparleremo, oggi vengono esportati all’estero, Italia compresa, motivo per cui, in base alle leggi che regolano il settore, sono definiti birrifici ‘craft’: si tratta del Mikkeller e del To Øl.
Fra i microbirrifici di recente apertura (2008), ricordiamo il “Birrificio del monastero’ (Klosterbryggeriet) dato che è ubicato in quelli che, fino al 1600, erano degli edifici religiosi nei quali i monaci cistercensi producevano birra: un registro risalente al 1554 riporta della presenza di uno stock di 22mila litri di birra suddivisi in cinque tipologie.
I fondatori dell’attuale birrificio, hanno avviato l’attività con lo scopo di far rivivere quelle antiche ricette che mettevano in grande risalto gli elementi base della bevanda, ovvero il malto e il luppolo: per questo motivo inoltre impiegano solo erbe e spezie nella disponibilità di quei monaci.
In sintesi, le parole d’ordine della ‘craft beer’ revolution danese sono sperimentare e stupire seguendo regole ben precise: non perdere il retaggio storico/culturale dei propri antenati, non seguire le mode, utilizzare solo materie prime di alta qualità, brassare prodotti ricchi di sapore e carattere e, allo stesso tempo, innovare sempre lanciando nuove birre sul mercato.