Se fra i più antichi progenitori del gin c’è il jenever, distillato a base di ginepro le cui origini possono essere fatte risalire al 13mo secolo, per arrivare all’odierno London Dry Gin bisogna prima passare da un altro prodotto: l’Old Tom.
Abbiamo visto nella precedente puntata come, verso la fine del 1600, il jenever olandese avesse ottenuto in Inghilterra un grande successo: fin troppo grande, dal momento che, agli inizi del 1700, il consumo pro capite di “Holland Gin” (così il jenever era chiamato Oltremanica da chi poteva permetterselo) e dei suoi derivati di scarsa qualità, destinati alle classi meno abbienti, raggiunse più o meno il mezzo litro al giorno, come riporta Samuele Ambrosi nel suo libro “Anthologin“.
In particolare, le fasce più povere della popolazione ricorrevano in massa a questi gin scadenti (il cui prezzo era inferiore a quello della birra, per effetto dell’aumento delle imposte su quest’ultima deciso da Guglielmo III) per cercare momenti di euforia ed evasione (leggi: ubriachezza) che facesse dimenticare la misera esistenza che conducevano. Le conseguenze di quella che viene ricordata come la “gin craze” (folia per il gin) furono devastanti: il tasso di mortalità a Londra crebbe enormemente, così come risse, schiamazzi e azioni criminose in luoghi pubblici.
il Parlamento inglese cercò di correre ai ripari, emanando fra il 1729 e il 1751 ben otto “Gin Act” con cui si istituivano tasse salate sulla distillazione e si limitava la vendita di gin nei negozi. Misure che portarono alla chiusura di molti piccoli produttori, lasciando il mercato per lo più a distillerie serie che sfornavano prodotti di qualità, alcuni dei quali sopravvissuti fino ai giorni nostri: da Finsbury (fondata nel 1740) a Greenall’s (1761), da Gordon’s (1769) a Plymouth (distillato dal 1793 da Black Friars).
L’Old Tom, gin “addolcito”
Materie prime e botaniche iniziarono a essere selezionate con maggiore attenzione, innovazioni tecniche come il distillatore continuo (1832) contribuirono a rendere il gin più raffinato, leggero e dolce. Si arrrivò così all’Old Tom, denominazione sulle cui origini circolano leggende fantasiose (legate ai gatti…) e che nell’Ottocento inizò a essere utilizzata in Inghilterra per indicare genericamente il gin, ma che nel tempo finì per caratterizzare solo i prodotti più dolci.
Del resto, nota Ambrosi, l’abitudine di addolcire il gin era diffusa già ai tempi della “gin craze”, per nascondere il sapore poco gradevole di prodotti distillati con materie prime scadenti se non addirittura tossiche (c’erano distillatori clandestini che utilizzavano addirittura olio di trementina o acido solforico!). E nell’Ottocento i produttori di Old Tom, pur utilizzando materie prime di qualità, continuarono ad addolcire il gin (aggiungendo zuchero oppure utilizzando botaniche come vaniglia, liquirizia e zenzero) per nascondere i difetti di una distillazione ancora un po’ grezza.
Proprio nel 19mo secolo gli ufficiali della Marina Britannica iniziarono a usare il gin per diluire e rendere così “bevibili” il chinino o l’Angostura bitter, utilizzati all’epoca come rimedi – rispettivamente – contro la malaria e contro coliche, problemi digestivi e raffreddori. Ponendo così le basi per l’utilizzo di questo distillato miscelato ad altri ingredienti.
Il London Dry Gin
Intanto, come detto, negli anni ’30 dello stesso secolo era nato l’alambicco continuo, brevettato dall’irlandese Aeneas Coffey (da cui la definizione “Coffey Still” per questo tipo di alambicco), che iniziò ad attirare l’attenzione dei produttori di Old Tom, a partire da Alexander Gordon (distillatore del Gordon’s). I quali capirono che l’alambicco continuo consentiva di ottenere un distillato con una maggiore concentrazione di alcol, più puro e pulito, rendendo superflua la dolcificazione. Nasceva così il London Dry Gin, nel quale, in assenza della parte dolce, erano esaltati gli aromi del ginepro e delle altre botaniche.
Una vera e propria rivoluzione che finì per interessare anche lo stesso Old Tom, che continuò (e continua tuttora) a essere prodotto, ma che nel tempo ha perso sempre di più le sue note dolci per assumerne altre, più erbacee e aromatiche. Il London Dry Gin, da parte sua, grazie alla pulizia e alla purezza del suo gusto diventò una base sulla quale i distillatori poterono sperimentare varianti “arricchite da note di frutta, spezie, radici e quant’altro”, spiega Samuele Ambrosi. “A patto, ovviamente, di seguire alcune regole per potergli dare tale denominazione, ovvero il Londoin Dry non deve essere colorato e tutti gli aromi (ovvero le botaniche) devono essere naturali (quindi non oli, essenze o tinture) e trasmessi durante il processo di distillazione. E lo zucchero? Non più di una quantità pari a 0,1 grammi per litro. Niente, praticamente”.
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